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A Dio, quel che è di Dio

«A CESARE QUEL CHE É DI CESARE, A DIO QUEL CHE É DI DIO»
(Is 45,1.4-6; Sal 95; 1Ts 1,1-5b; Mt 22,15-21)

            La visione che il profeta Isaia ha di Dio è davvero sorprendente, perché mostra che la sua sovranità si estende al di là dei confini delle nazioni, essendo il Dio di tutti i popoli. In questa ottica, ci possiamo lasciare sorprendere che si rivolga al re Ciro di Persia e ce lo presenti come “eletto” di Dio, dandogli addirittura il titolo di “messia”, unto del Signore, a cui viene assegnato il compito di restituire la libertà al suo popolo Israele. E Dio si rivolge a Ciro con accenti di una confidenza e tenerezza straordinari chiamandolo per nome, come a dire che lo conosce bene, anche se il re Ciro non lo conosce e non sa nemmeno parlare di Lui. Questo modo di presentarsi da parte di Dio ci colma di stupore e di gioia, mentre ci dà la consapevolezza che Egli non è lontano e non è estraneo a nessuna creatura, perché tutti a Lui apparteniamo, essendo Egli l’unico Dio. Egli guarda a ciascuno di noi con tenerezza di Padre ed ha un disegno particolare per ciascuno di noi, anche quando noi non lo sappiamo o non ce ne rendiamo conto. Per Lui tutti contiamo e siamo importanti, perché ha impresso la sua immagine in  ciascuno di noi e porta il nostro nome scritto nel palmo della sua mano. Egli si riconosce in noi, perché desidera che anche noi, suoi figli, possiamo riconoscerci in Lui.

            Il senso della sovranità d’amore di Dio è vissuto con grande naturalezza da Gesù, che vede tutto nell’ottica del Padre e tutto riconduce al rapporto di filiale fiducia ed abbandono. In tutto quello che Egli dice e fa lascia intravedere all’orizzonte il volto del Padre. Anche nelle dure controversie con gli scribi e i dottori della legge o altre categorie di persone, che vogliono attaccarlo per gettare discredito su di Lui, Gesù non distoglie mai il suo sguardo dal Padre. Lo vediamo anche nella pagina di Vangelo di questa domenica. Alla serie di parabole in cui Gesù denuncia apertamente la falsa religiosità dei capi del popolo e delle autorità religiose, segue una serie di attacchi sottili e rabbiosi da parte dei suoi avversari, che hanno come scopo quello di mettere in difficoltà Gesù e farlo apparire come nemico della legge di Dio o persino nemico del popolo, che lo segue ed è affascinato dalla sua parola e dai suoi prodigi. Matteo ci dice che gli avversari si coalizzano insieme pur di raggiungere il loro scopo e preparano una strategia di attacco che si presenta molto insidiosa e ben architettata, proprio in vista di tendere una trappola in cui far cadere Gesù con le sue stesse parole.

            Il primo attacco è portato avanti dai farisei e dagli erodiani, che abitualmente non sono in buoni rapporti tra di loro. I primi infatti mal sopportano la dominazione romana ed a malincuore pagano le tasse governative perché non ne possono fare a meno. Gli erodiani invece vengono ritenuti collaborazionisti dei romani. Ebbene questi due gruppi si coalizzano per affrontare Gesù. C’è un particolare significativo, che Matteo ci rivela quando ci dice che i capi dei farisei mandano i loro discepoli. Essi non si vogliono esporre visto che Gesù ha fatto far loro delle brutte figure. Si avvicinano a Gesù e si rivolgono a Lui con parole di elogio riguardo alla sua persona. Quello che loro dicono lo pensano davvero, anche se fa loro male doverlo ammettere. Non possiamo fare a meno di ammirare la franchezza, il coraggio e la grande libertà con cui Gesù parla di fronte ad ogni persona, senza tenere conto del titolo o della carica che questa riveste. La sua parola non è condizionata dalla persona che gli sta davanti, perché Egli parla a tutti con verità, non guarda in faccia a nessuno.

            Dopo i convenevoli, sputano subito la domanda velenosa: “É lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?”. É una domanda diretta, alla quale aspettano una risposta altrettanto diretta, un sì o un no.  Qualunque risposta Gesù avesse dato sarebbe caduto nella loro trappola. Se diceva no, veniva accusato di sedizione nei confronti dei romani; se diceva sì, allora si sarebbe inimicato il popolo che non gradiva pagare le tasse.  Egli invece, con molta calma, li guarda e subito fa capire che ha scoperto il loro gioco, chiamandoli ipocriti. Quindi chiede loro di mostrargli una moneta. E come se non sapesse come era fatta una moneta, chiede loro: “Di chi è questa immagine e l’iscrizione?”. Già, perché su ogni moneta era impressa l’ immagine di Tiberio Cesare e l’iscrizione lo precisava, aggiungendo la sua carica di “sommo sacerdote”. Per un ebreo di stretta osservanza già quell’ immagine era un segno idolatrico, eppure i farisei la portavano tranquillamente in tasca. Dopo aver osservato lentamente la moneta,  Gesù la consegna indietro e risponde con gravità: “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio”. Gli interlocutori sono del tutto spiazzati e rimangono senza parola. Così lo lasciano e se ne vanno

            Ma le parole di Gesù continuano a rimbalzare nei secoli, con le varie interpretazioni che si è cercato di dar loro di volta in volta. A noi resta chiara la convinzione che, vivendo in questo mondo, dobbiamo assumerci le nostre responsabilità e cooperare al bene comune senza venir meno ai criteri di giustizia e di equità che devono ispirare ogni governo terreno, ogni Cesare ed è giusto che il credente si faccia sempre promotore dei giusti diritti dell’uomo, in specie del debole, della donna, del minore, del sofferente, dell’ indifeso, dello scartato. Il mondo è di Dio, ma Egli ce lo ha affidato perché lo coltivassimo e lo trattassimo con rispetto ed amore, non per dilapidarlo, ma perché sia dimora accogliente ed ospitale per tutti e non solo per una minoranza avida e violenta. Noi stessi, infine, siamo di Dio, la sua immagine è impressa nel nostro intimo e quindi siamo chiamati a renderlo visibile e presente nella nostra vita, nella nostre attività, nelle nostre scelte, che devono guardare sempre a Lui, mantenersi in relazione con Lui, in modo da non sfigurare la sua immagine in noi. Possiamo sentire sempre in noi la gioia di dire: “Io appartengo al Signore!”.

            Giuseppe Licciardi (Padre Pino)