Skip to content Skip to footer

La vite e i tralci

La vite e i tralci

«CHI RIMANE IN ME ED IO IN LUI FA MOLTO FRUTTO»
(At 9,26-31; Sal 21; 1Gv 3,18-24; Gv 15,1-8)

Il versetto finale della prima lettura, ci presenta una immagine consolante della Chiesa, che veniva da un periodo di persecuzione da parte dei capi del popolo, del Sinedrio e dei sacerdoti del tempio. Saulo di Tarso si era spinto fin oltre i confini della Giudea per cercare e mettere in prigione tutti i seguaci della via (così venivano chiamati i discepoli di Gesù). Ma proprio il persecutore più accanito, sulla via verso Damasco si imbatte in Gesù di Nazaret, che gli appare, gli apre gli occhi e cambia totalmente la sua vita, facendo diventare anche lui un suo discepolo. Con Saulo, diventato addirittura un ardente e convincente annunciatore del vangelo, la Chiesa può tirare un sospiro di sollievo. Confortata dallo Spirito, essa vive al momento un periodo di pace, che le permette di riprendersi, di consolidarsi e crescere addirittura di numero, grazie alla conversione di sempre nuovi credenti. La Chiesa ha esperimentato direttamente la dolorosa potatura che l’agricoltore, il Padre celeste, fa alla sua vigna, non per stroncarla, ma per renderla più vigorosa e capace portare più frutto.

          L’immagine della vigna, come raffigurazione poetica del popolo d’Israele, non è del tutto nuova nella Sacra Scrittura. Il profeta Isaia afferma apertamente che la vigna del Signore è la casa d’Israele, e per essa Dio aveva fatto delle opere straordinarie, per renderla una vigna feconda, fiorente, ben difesa da un recinto alto e sicuro. Ma questa vigna pregiata si è imbastardita, ed invece di produrre uva buona ha cominciato a produce uva selvatica, acerba ed immangiabile. Così il Signore l’ha abbandonata a se stessa ed alla furia dei suoi nemici. Ma poiché Dio non si stanca mai di cercare il suo popolo ed è sempre pronto a ricominciare da capo ed a ridare fiducia, ecco che manda il Figlio suo, Gesù, che si presenta come la vera vite. Finalmente, con Lui, il Padre non avrà più delusioni, perché Egli copre tutte le infedeltà dei figli. La parabola che Gesù racconta ci mostra il segreto del suo rapporto con il Padre e con noi, e nello stesso tempo ci indica qual è il tipo di rapporto che ogni discepolo deve riuscire a costruire con Lui e con il Padre, se vuole essere vero discepolo e portare molto frutto.

          Fin dalla prima battuta, Gesù si premura di chiarire il ruolo essenziale e originario del Padre, la cui presenza è imprescindibile. Gesù insiste nel ripetere ai discepoli che Lui e il Padre agiscono in piena e perfetta sintonia, e come il Padre ha messo tutto nelle mani del Figlio, così il Figlio dice e fa sempre tutto quello che gli viene chiesto dal Padre, perché fra di essi c’è una comunione così intima che consente a Gesù di dire: “Io e il Padre siamo una sola cosa“. “Io sono la vera vite e il Padre mio è l’agricoltore“. Gesù ci presenta il Padre suo come l’agricoltore. Quindi entriamo in scena noi, presentati come tralci della vera vite. Il tralcio non ha vita in se stesso, ma la riceve dalla vite. Staccato dalla vite, non può portare frutto, ma secca, ed buono solo per il fuoco. L’immagine è di una forza straordinaria, proprio per la sua immediata evidenza. “Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me”, conclude Gesù, rivolgendosi direttamente a noi. E ci invita e ci esorta con insistenza a rimanere in Lui, così come Lui rimane in noi.

          Nel Vangelo di Giovanni “rimanere” è un verbo molto ricorrente ed è usato per farci comprendere il rapporto che c’è fra Gesù ed il Padre, ma anche per dirci che lo stesso tipo di rapporto Gesù desidera che ci sia tra noi e Lui e tra noi ed il Padre. Il rimanere indica una piena comunione di intenti, di progetti, di vita, di dialogo, di interazione, di cooperazione. Non è un verbo che indica staticità ed immobilismo, ma al contrario un processo vivo, vitale, di intesa, di entrare in sintonia ed in simbiosi con Gesù. Tant’è vero che la condizione unica per poter portare frutto sta proprio nel rimanere in Lui. Ed ecco la domanda vitale. Cosa fare per rimanere in Lui? Anzitutto far rimanere in noi la sua Parola, ascoltandola, accogliendola, vivendola, facendola crescere in noi. Si rimane in Lui con la preghiera assidua, intesa come ricerca della sua volontà, desiderio di rimanere nel suo amore. Si rimane in Lui nutrendosi con del suo corpo e del suo sangue, e  vivendo per Lui, con Lui ed in Lui. Si rimane in Lui, facendo di tutto per rimanere in comunione con la Chiesa e con i fratelli, che sono il suo corpo.

La vita spirituale in fondo si gioca su questo rimanere in Cristo per portare molto frutto. L’amore verso i fratelli e l’osservanza dei comandamenti, come espressione naturale dell’amore verso Dio e verso Gesù, è il frutto spontaneo del rimanere in Lui. Si capisce che tutto questo non avviene per un processo automatico, ma esige un intenso e faticoso lavoro interiore. Gesù parla della necessità della potatura che il Padre compie sui tralci che già portano frutto, perché quelli che non portano frutto vengono già tagliati e gettati via. Si sa che la potatura è dolorosa, ma non è dannosa, anzi essa è estremamente utile e necessaria per far si che i tralci non finiscano col produrre solo foglie senza frutti. La sofferenza, le prove, l’esperienza dei propri limiti e delle proprie debolezze, il riconoscimento dei peccati e dei fallimenti fanno parte di questa potatura che l’agricoltore compie con grande perizia e saggezza, proprio perché desidera che il tralcio porti frutto abbondante. Occorre fidarsi di Lui, che ci ama e sa cosa fa, e quindi accettare, e desiderare persino, la potatura.

          Giuseppe Licciardi (Padre Pino)