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Non siamo più capaci di progettare se non per il presente

Non siamo più capaci di progettare se non per il presente

Quattro anni fa, parlando della diffusione dell’Ebola, Bill Gates dipingeva uno scenario che esortava a riflettere su cosa avremmo dovuto imparare da quell’evento e da come era stato “contenuto”, sottolineando lucidamente che, nonostante le conseguenze disastrose per tanti esseri umani, le caratteristiche di quell’epidemia erano tali da permettere un’azione rivelatasi nel tempo efficace. Suggeriva soprattutto di migliorare le nostre risorse in vista della possibilità di eventi futuri similari.
Non sono certo una fanatica di Bill Gates né intendo proporre qui quell’analisi come modello; quell’intervento è stato però per me uno spunto di riflessione.
Oggi siamo di fronte ad una situazione d’emergenza drammatica, prodotta sempre da un virus, che come allora ci coglie impreparati. Credo che emerga una delle caratteristiche fondamentali del nostro tempo: non siamo più capaci di progettare se non per il presente; abbiamo mantenuto la capacità di risolvere problemi che, secondo J. Piaget è la più alta forma di intelligenza, ma solo per il presente, solo quando il problema è “qui” ed “ora”. Tutto assume per noi significato solo se è attuale, anzi proprio davanti ai nostri occhi sia in modo reale che virtuale. E agiamo come la nostra società ci ha insegnato, mettendo in campo soluzioni immediate ed “economiche”, come se fossimo davanti ad un computer e un “clic” ci permettesse di ottenere ciò che cercavamo.
La nostra società non ci offre più il tempo dell’attesa e dell’elaborazione; abbiamo smarrito l’idea che ogni evento reale è storico, si sviluppa nel tempo e ha molteplici cause, anche molto lontane nel passato, che si sono silenziosamente intrecciate sotto i nostri occhi, ormai incapaci di immaginare relazioni e conseguenze non immediatamente presenti.
Abbiamo perso il senso della storia (a causa della sua “accelerazione”) e quindi la capacità di collocarci autonomamente in essa con azioni consapevoli.
Marc Augé parlava di “surmodernità”, cioè una modernità “in eccesso”, fatta di accelerazione del tempo (tutto accade in fretta e in tempo reale), restringimento dello spazio a ciascuno in quanto soggetto singolo (“IO”), individualismo e soprattutto solitudine. Pensiamoci, siamo in tempo a cambiare a ritornare ad essere “solutori di problemi” con ampie “vedute” sul passato, sul presente e sul futuro, e anche se appare difficile, di fronte agli ostacoli, richiamiamo alla memoria il titolo di una conferenza di Bauman “C’è una luce in fondo al tunnel” e ci sentiremo veramente tutti ricercatori e costruttori del nostro mondo.

Maria Luisa Ierace